Ci sono dipartite di cui non riesco a parlare.
Dopo trent’anni di ascolto della musica di Franco Battiato, oggi ho pensato di far danzare alcuni brani da “Inneres Auge” al primo incontro di danza in presenza tra più persone, dopo questi 15 mesi di “finimondo” (più o meno costruito).
È stata una doppia emozione, soprattutto quando leggevo quella musica nei corpi e nei movimenti delle presenti, finalmente in relazione fisica ed emotiva dal vivo tra loro.
Roba potente, di cui non vogliamo fare a meno, mai più.
Durante questa bellissima ora ho parlato di lui, della morfologia dei brani utilizzati, dei flussi di energia, di come certe alchimie sembrino scaturire direttamente dal mondo del movimento corporeo. L’attenzione che ricevevo era massima, quasi famelica: per me è stato un modo di riconoscere a me stessa che lui non è più nella sua casa siciliana ai piedi dell’Etna dove spesso lo pensavo, e per loro una buona occasione per nutrirsi di buona musica. Poi le note scivolavano su quei corpi, tutto prendeva un nuovo, ulteriore senso.
Dalle vecchie glorie di Battiato, quasi bambina, sono cresciuta accompagnata dalle sue esplorazioni, facendomi forgiare come ferro battuto da un immaginario denso di riferimenti vastissimi e circolari, nell’idea umile e onesta che l’arte nasca dal bisogno di esprimere visione, ricerca, evoluzione, anche se questo comporta rischio e lavoro. Più volte seguendo i suoi testi ho preso spunto, cercato informazioni, approfondito più che altro un modo di sentire, viaggiando un po’ con lui e a mia volta provando a far viaggiare tante, tantissime persone nel mio lavoro.
Ho amato la sua musica soprattutto quando riscriveva le partiture elettroniche in chiave sinfonica e diventava energia continua e costretta, vibrazioni e frequenze meditative in cui far fluttuare stati di coscienza altri.
L’ho visto diverse volte dal vivo, che non era la sua dimensione; si animava soprattutto se poteva poggiarsi ad un’orchestra con nutrita sezione d’archi ed eternità. A volte stava sul suo tappeto persiano e ascoltava quelle corde tese con noi.
Fortemente ancorato ad un linguaggio simbolico ed archetipico, colto a strati e un po’ maschiocentrico tuttavia, lo spazio in ogni senso è stato l’elemento che l’autore ha indagato più a fondo.
Il lavoro di Battiato si è focalizzato su un tempo non tempo in cui elementi post moderni elettronici e tecnologici venivano scomposti in moduli semplici e ripetibili, d’immediatezza pop. I mezzi moderni, avanguardistici nel pop italiano di cui è stato pioniere, Battiato ce li ha offerti come possibilità, opportunità, chiavi narrative, gestendole non per distruggere mondi e modalità, ma per integrarli e renderli fruibili a molti. Quasi un atto democratico ed egalitario, che rispondesse solo a leggi cosmiche universalmente riconosciute. Nessuno l’avrebbe detto negli “opulenti” anni ’80, ma ha avuto ragione lui.
Il contrasto, la contraddizione, la complessità possono diventare “semplici”, fluendo in modo organico, quasi fisiologico, parlando ad un umano ben radicato in basso attraverso la tradizione, quindi libero di guardare in alto grazie alla ricerca. “Cerco una forza di espressione pura, totale”; “il mio ideale è primigenio”, diceva.
La Danza, il danzare sono stati molto presenti nelle evocazioni e nei sottotesti, confermando una volta in più che Franco Battiato è stato un artista e un intellettuale a tutto tondo, non solo un musicista; lui stesso ha studiato le Danze di Gurdjieff, che ha avuto il coraggio (e la passione materialmente disinteressata) di inserire in alcuni suoi videoclips:
Sembrano danze scoordinate, disarmoniche e inefficaci, per niente televisive (Gurdjief lavorava anche sulla scomposizione coordinativa e il fuori tempo musicale, argomenti non certo performativi!), ma ci raccontano di uno sguardo ampio e dell’audacia di questo artista davvero unico.
Il testo di una sua canzone diceva:
“Che cosa resterà di me, del transito terrestre, di tutte le impressioni che ho avuto in questa vita…”
Molto Maestro. Molto.
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