Martedì 2 Giugno un TG nazionale del servizio pubblico dava in chiusura la notizia di una donna uccisa a Albenga dall'ex marito. Inutili le svariate denunce che lei aveva fatto a carico dell'uomo, per stalking, minacce e maltrattamenti.
Arrestato e trattenuto per tentato omicidio, lui era tornato libero grazie al patteggiamento; appena fuori dal carcere, nonostante il divieto di avvicinarsi alla casa e al luogo di lavoro della donna (dove aveva già tentato di strangolarla), il persecutore, lasciato nelle condizioni di poter abusare, disattende la legge e corre alla piccola mansarda in cui Loredana viveva con le figlie, e la uccide a coltellate, quella donna di cui tutti conoscevano il dramma, descritta da testimoni come visibilmente tremante ogni volta che doveva uscire da casa o dal lavoro.
La figlia, martirizzata lei stessa dal lungo martirio vissuto dalla madre, deve assistere anche alla mattanza: l'assassinio della madre e la morte dell'uomo, si presume per suicidio.
Il pensiero mi va a qualche settimana fa, a una mattina piovosa di maggio al Tribunale di Massa Carrara. Ho alcune domande per Aldo Giubilaro, Procuratore Capo, impegnato anche sulla violenza di genere. Sono un po' nervosa, ma penso sia utile entrare in contatto diretto con chi svolge il difficile compito di indagare un fenomeno così doloroso e devastante. Inizio con la prima domanda: oggi, dal punto di vista della Legge, il reato di stalking si integra quando il fenomeno si manifesta in modo pesante. Bisogna forse chiedere di più alla nostra legislazione?
Ogni mattina sulla mia scrivania c'è una pila di denunce, anche di stalking. Non è però vero che tutte le denunce per stalking si traducono in fatti accertati. Per motivi vari e disparati c'è una fetta di persone che esagera, o che vorrebbe usare la legge in modo strumentale, magari in sede di separazione. Per integrare il reato, non c'è sempre bisogno di una forte reiterazione degli episodi: possono essere anche due o tre, con caratteristiche intrinseche determinanti. Visto che passare alla dimostrazione di un aspetto teorico è centrale, è chiaro che se gli episodi sono diversi, ciò diventa più facile. Ci deve muovere un senso di responsabilità, ci vuole cautela per iniziare processi o azioni forti, perché ogni volta abbiamo a che fare con la vita di interi nuclei familiari. Ci vogliono condizioni particolari di equilibrio: non dobbiamo sottovalutare, ma neanche sopravvalutare in eccesso la violenza. Ci sono ragioni culturali che possono indurre a non dire, ma anche l'atteggiamento opposto. Quello che io noto, è una forma di esagerazione in entrambe le parti: si sottovaluta per ragioni storiche, si sopravvaluta come reazione del momento.
In un paese come il nostro, dove da anni ogni 2,5 giorni viene uccisa una donna per mano di uomini di famiglia, bisogna però farci delle domande. In molti casi vengono uccise donne che hanno presentato già due, tre denunce. Come mai?
E' fin troppo facile dire dopo cosa dovevamo fare. Ovvio che c'è qualcosa che non va. Non possiamo intraprendere azioni forti per paura. Mi dica Lei cosa dovremmo fare: dovremmo mettere in galera,fare ammonimento, quando non ci è possibile dimostrare con cautela come stanno i fatti? Noi possiamo sentire il denunziante per rendersi conto e in caso intervenire, dobbiamo valutare. Le varie parti (Centro di ascolto, Polizia, Carabinieri, Procura) devono fare una valutazione prognostica di ciò che può avvenire in futuro. Noi possiamo essere severi quando il fatto è accertato.
Qual è la cultura giudiziaria di riferimento nel seguire questo ambito? Assistiamo spesso a sentenze paradossali. Le risulta che chi opera nel contrasto alla violenza di genere (avvocati, forze dell'ordine, inquirenti, magistrati...) riceva una formazione specifica, come richiesto dalla Convenzione di Istanbul?
Un tempo la cultura giudiziaria sottovalutava questi fatti. Oggi spesso e volentieri nell'attività giudiziaria c'è più presenza femminile: in Procura ci sono molte donne e io ho delle donne che si occupano di questo ambito specifico. In Magistratura non c'è subordinazione gerarchica, si agisce alla pari, ci deve essere un equilibrio in scienza e coscienza.
Cosa c'è da migliorare secondo Lei?
Il fenomeno della violenza c'è, esiste e è di una portata tale che non si può risolverlo per via giudiziaria. Se non si tratta di fenomeno episodico e generalizzato, vuol dire che è culturale e strutturale al rapporto uomo/donna. Gli uomini hanno fatto minori progressi nel rapportarsi alle donne, mentre le donne hanno intrapreso da decenni una percorso critico e si sono impegnate per l' emancipazione. Dobbiamo mettere in atto un'attenzione forte, vigile. Il rapporto tra pena inflitta e pena scontata, deve migliorare nel nostro paese: l'Italia ha il rapporto più basso in Europa.
Il Dottor Giubilaro è stato gentile e disponibile. Chiaro. Lentamente esco dal Tribunale, attraversando al rovescio i vari punti di controllo. Ha piovuto, sento freddo, i miei passi cercano di evitare le pozzanghere. E' difficile. Come è difficile accettare che tutto si risolva in pochi, determinanti passaggi pratici. Ripenso alle tante donne conosciute e intervistate in questi anni, al percorso di dolore che hanno deciso di intraprendere per farci avanzare tutti di un passo.
Penso alle prove, impossibili, che dovevano accumulare, pur vivendo e agendo completamente sole. A quanto erano furbi e spregiudicati i loro compagni. A quanto manifestavano con ostentazione il loro odio. Ho negli occhi queste donne incontrate, di tante età, con sguardi affranti e offesi dal dover dimostrare ciò che a un certo punto, era fin troppo chiaro. All'umiliazione di ricevere violenza, anche attraverso una tenace diffidenza. Al fatto di trovarsi di fronte un muro alto, cercando la giustizia, e trovando la legge.
Uguale per tutti, oggettiva, equilibrata, dimostrabile, inconfutabile.
Come lo è stata per Loredana Colucci, a Albenga. E per sua figlia, quella ragazzina di tredici anni.
Simonetta Ottone; in collaborazione con Simona Volpi
Comments