Roberto Bolle è bellissimo e bravissimo.
Una Star.
Di lui apprezzo in particolare lo sforzo divulgativo nel far conoscere il balletto a un vasto pubblico, contribuendo a restituire dignità al servizio pubblico televisivo.
Vederlo danzare però mi scalda al pari di una cartella esattoriale: è un prodotto perfetto, fisicamente super potenziato, tecnica ed estetica ineccepibili.
Eppure lo percepisco bidimensionale, i movimenti periferici, il busto bello e finto, il bacino in rigida, costante retroversione (comprensibilmente); molta l’energia sovrattutata, e pochissima energia in flusso libero di movimento, zero il minimo accenno di spontaneità, e tantomeno di personalità. Un corpo che è l’immagine di un ideale, ma che di quell’ideale non trattiene la drammaticità.
Confesso: guardo Roberto Bolle danzare ammaliata ed ammirata come guardavo Yuri Chechi agli anelli di ginnastica artistica, perché ho profondo rispetto di chi riesce a disciplinarsi attraverso la fatica, e la gioia, di un rigoroso lavoro sul corpo. E che investe anni e anni di vita sottratta ad altro, per questo.
Roberto Bolle è un rappresentante emblematico del Balletto di oggi. Nell’epoca senza confini, illimitata di tempo e spazio, in cui tutto è possibile e il virtuale sostituisce la percezione del reale, i ballerini hanno il dovere “morale” e concreto di dimostrare di essere bionici, hanno il dovere della perfezione, svuotata da qualsivoglia fantasia, o contenuto.
Sono corpi domati, dominati, usati all’esasperazione, inumanizzati. Corpi di cui i danzatori stessi si indispongono, perché sono mezzi tenuti a produrre un risultato verificabile, misurabile, vendibile, quasi sensazionalistico.
Bolle è un ballerino dalle attitutidini e capacità incredibili: è perfetto tecnicamente, bellissimo, gestisce un corpo curato nei più maniacali dettagli, lavoratissimo, scolpitissimo e sovradimensionato. Roba difficile, tanta umiltà.
Ma proprio perché è così costruito che mi fa rimpiangere l’eleganza e la disperazione del danzare di Nurejev, altra epoca, altra storia, altro tutto, certo. Ma guardarlo era guardare qualcuno che amava, e te lo diceva danzando, nell’umiltà grandiosa di un corpo non perfettamente piegato ai clichè tecnici. Perché rimaneva il corpo di un uomo.
Da buon tartaro cresciuto nel niente di ghiaccio e adottato dallo Stato come quasi un orfano, la sua unica chance è stata la danza, che nel suo paese era solo classica. La Danza, di cui il Balletto è una parte (e sarebbe utile che Bolle divulgasse anche questo concetto nel suo apprezzabile impegno televisivo), per Nurejev era stato quasi un incidente, un effetto collaterale, una benedizione, per tutta la deprivazione, il furore, la rabbia e la ribellione che aveva imprigionati nei muscoli e che, rimanendo indigeribili, prendevano l’unica forma possibile: una danza rigorosa, ma indomabile. E profondamente originale.
E’ noto che il grande artista appena poteva, sfiancato dalle prove, andava per musei, vagabondava per le città e i luoghi dove si trovava;non credo andasse, come avrebbe dovuto per essere “perfetto”, a letto presto tutte le sere, con cena leggera: amici di Milano mi hanno raccontato che dopo gli spettacoli andava a far loro visita e si divorava una pentolata di cassouela lombarda (che loro cucinavano per lui), che non è un piatto proprio leggero, accompagnata da del buon vino rosso, ovviamente!
Ciò che si vedeva nel suo danzare, e che non si vede nei grandi ballerini di oggi, era proprio questo: la voglia di parlare della vita.
E che piroette, grand jeté e tour en l’air, anche se in modo stilizzato, parlano di questo.
Quella spinta di vivere, che ti fa “perdere” energie, sprecare forze per il faticosissimo lavoro che ti aspetta il giorno dopo. Ma che ti trova vivo.
Nurejev cercava, assaporava, rifletteva su più arti (in primis la pittura e la musica), si interrogava sulle alchimie che regolano linguaggi e codici.
Era una persona curiosa, interessata alla cultura artistica e generale, non solo di settore.
La danza era tutto, ma mai il fine.
Ed era imperfetta.
Ancora più sublime, perché riconoscibile nella condizione umana.
Non a caso, diceva in modo leale e un poco sprezzante che Barishinikov, era solo un “atleta”.
Venuto più tardi anche lui dalla Russia, corto, compatto, di massa, esplosivo ed acrobatico, disponeva di un corpo fortemente caratterizzato, quindi meno versatile nei ruoli. E probabilmente meno elegante e meno drammatico dal punto di vista espressivo, rispetto al gigante, e pionieristico collega.
Ecco, questo è il punto.
La danza (e il balletto) non sono uno sport, poiché la danza da sempre ha poca a che fare con la prestazione.
La danza ha a che fare con l’espressione dell’essere umano.
Perché non è tenuta a dimostrare qualcosa, non deve giustificare la sua esistenza con distrazioni di abilità.
La danza avviene, è atto in sé.
E questo è l’unico atto di coraggio che sarebbe utile riaffermare quando parliamo di lei.
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